Ancora una lettera dalle donne detenute nel carcere di Torino, ancora un grido lanciato oltre i muri e le gabbie sperando che qualcuno lo ascolti. In carcere di questi tempi si è soli, si cerca di sopravvivere al caldo rovente, all’umidità, all’acqua che ti piove in stanza, e il tempo resta sospeso e non passa mai. Lo scorso anno d’estate alle Vallette due donne si sono tolte la vita, e tanti altri hanno cercato o pensato di farlo. Questi ultimi mesi invece sono trascorsi in un susseguirsi di rivolte, proteste, violenze, con l’obiettivo di costringere politici annoiati e distratti a produrre qualcosa di concreto dopo decenni di inutili battibecchi. Tutte queste azioni però non sono riuscite a creare in Italia un movimento forte e unito che mettesse politici ed istituzioni con le spalle al muro.
E quindi i mesi estivi del 2024 hanno registrato da un lato un numero impressionante di morti in carcere, dall’altro l’ennesimo inutile parto a livello legislativo. Si riparla di nuove carceri, magari private, e si respinge lontano l’idea di misure alternative. Allora le donne che sono quelle che riescono a parlarsi, a dare un nome e un giudizio a sensazioni e sentimenti che spesso gli uomini cercano di ignorare o silenziare nella solitudine della propria cella, prendono nuovamente la parola in modo autorevole, e chiedono conto del disastro che hanno davanti agli occhi. I “magazzini” in cui dei corpi cancellati sopravvivono e non vivono, spesso imbottiti di psicofarmaci, stanno “per esplodere”.
E’ già tardi. “Non c’è più tempo”: in carcere nessuno più crede che abbia un senso aspettare, sperare di vedere approvata una nuova legge che dia compimento a dei diritti che sulla carta esistono già da decenni e che non vengono quasi mai riconosciuti. “Non c’è più spazio”: lo spazio si restringe sempre più con il sovraffollamento prodotto dal continuo arrivo di persone fragili che in carcere non dovrebbero mai entrare, o da chi, in assenza di efficaci misure di reinserimento sociale, continua ad entrare ed uscire convincendosi disperatamente di non avere altro orizzonte di vita. Chi decide di mettere in gioco il proprio corpo in un’estrema forma di lotta gestita collettivamente – lo sciopero della fame – pretende delle azioni concrete.
Valeria